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GEOPOLITICA

PACE A GAZA,  PROSPETTIVE MILITARI

PACE A GAZA, PROSPETTIVE MILITARI

Lasciata depositare un po’ di polvere, proviamo a ragionare sugli eventi relativi alla crisi di Gaza. Sapete che non amo troppo parlarne perché la crisi stessa ha ben poco di militare e presenta troppi aspetti puramente politici, dai quali essendo un analista militare preferisco tenermi distaccato.


Militarmente gli accordi firmati a Sharm el-Sheik hanno un interesse a livello strategico, e presentano aspetti tecnici rilevanti per il futuro, ma naturalmente hanno poco a che vedere con le operazioni militari in senso stretto, visto che ormai già da diversi mesi tali operazioni erano prive di senso se non a livello puramente dimostrativo, e generavano quasi esclusivamente danni collaterali: ragion per cui gli stessi militari professionisti israeliani si opponevano in misura crescente al loro proseguimento.
A livello strategico, gli accordi appena firmati rappresentano un ritorno in grande stile degli Stati Uniti in Medio Oriente in funzione di “Peacemaker”. Il fatto che questo ritorno abbia avuto almeno apparentemente successo dipende dall’evidente volontà tanto di Israele che dei Paesi Arabi nella loro quasi totalità (fanno eccezione i ribelli Houti dello Yemen e i signori della guerra libici) di trovare un accomodamento dopo una crisi che nessuno di loro aveva cercato – anche se l’attuale Governo israeliano l’ha cavalcata anche per motivi di politica interna – e nel contempo di compiacere un Potus che conviene non irritare troppo a causa della sua tendenza ad usare il potere economico come una clava.
Le presenze al vertice di Sharm confermano il ristabilimento dell’egemonia americana in Medio Oriente: oltre a Israele e ai Paesi Arabi amici, erano presenti gli alleati europei e asiatici dell’America, compresi quelli più problematici come la Turchia e il Pakistan, mentre erano vistosamente assenti tanto l’Iran con i suoi alleati asimmetrici quanto soprattutto la Russia, la cui influenza appare ormai completamente scomparsa dalla regione, mentre quella cinese è ancora relegata al solo piano economico e comunque in ruolo del tutto subordinato. Da cosa dipende questa ribadita egemonia, che chiude una fase durante la quale avevamo visto soprattutto le monarchie del petrolio flirtare apertamente con i famosi BRICS?
Sicuramente gli analisti politici ed economici avranno le loro opinioni in merito, ma essendo il Medio Oriente quello che è, l’aspetto strettamente militare è fondamentale; e negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno chiaramente dimostrato la loro capacità di proiezione militare sulla regione, non solo abilitando Israele a fare i comodi propri a Gaza, nel Libano, in Siria e in Iran, ma anche e soprattutto mostrando i muscoli in prima persona tutto intorno al Teatro bellico con portaerei, sottomarini e bombardieri strategici che con la loro sola presenza decuplicavano l’effetto deterrente delle azioni dirette da parte di Israele. I Paesi Arabi sono ricchissimi ma relativamente sottopopolati, e per quanto elevate possano essere le loro spese militari possono esprimere una relativa deterrenza fra di loro e nei confronti dell’Iran, e magari tutti insieme potrebbero anche esprimerne una nei confronti di Israele, ma di fronte alle Potenze mondiali sanno di essere del tutto indifesi.
La Russia ha dimostrato la sua totale impotenza a difendere i propri alleati nella regione: l’Armenia è stata abbandonata per prima, Hamas ha ricevuto un appoggio iniziale di pianificazione ed è stata lasciata a sé stessa, il Regime di Assad è crollato come un tronco marcio, e perfino l’Iran è stato lasciato del tutto solo ad affrontare la collera di Israele mentre la Russia si rotolava nel fango del Donbas impegnata nel suo duello mortale contro una media Potenza europea.
La Cina a sua volta ha tenuto un profilo bassissimo durante l’intera crisi, ansiosa di mantenere aperte le rotte del petrolio e di non irritare l’India con una presenza eccessiva nei mari che New Dehli considera di sua pertinenza.
L’Europa dal canto suo appare concentrata sul confronto con la Russia e più ansiosa che mai di tenersi allineata con l’America in una regione che per essa è sempre meno fondamentale, ma che rimane geograficamente vicina.
Insomma, i Paesi arabi non hanno alternative: per la gestione della propria sicurezza a loro conviene l’amicizia dell’America, e quindi la coesistenza con Israele.
Come abbiamo visto, dal punto di vista strettamente militare il conflitto a Gaza era terminato mesi fa con l’estinzione virtuale della componente militare di Hamas: quel che ne resta sono gruppi disorganizzati di militanti, per lo più di recente affiliazione, con scarso addestramento e armamenti ormai quasi solo più leggeri. Questi gruppi agiscono con un coordinamento minimo e sono indistinguibili dalla popolazione, per cui l’esercito per dare la caccia a loro deve inevitabilmente colpire la popolazione, con gravi danni collaterali e scarsi risultati pratici: ormai è un lavoro per forze di polizia e di sicurezza, non per Brigate corazzate. Con Hezbollah sgominato, il Regime di Assad abbattuto e l’Iran neutralizzato almeno per il momento, Israele non ha più interesse nella prosecuzione un conflitto che può solo alienargli ulteriormente le simpatie del mondo e dei suoi stessi alleati.
Questo è vero per Israele, ma potrebbe non esserlo per Netanyahu e i suoi attuali alleati di Governo, minacciati dalle imminenti elezioni che si prevede toglieranno loro il potere. Ma nel momento in cui Trump ha scoperto che perfino in America e fra i MAGA la simpatia per Israele è crollata per la prima volta sotto il 50%, anche per Bibi è diventato difficile trascinare ulteriormente il conflitto al solo scopo di ritardare le elezioni: anche per lui è una pessima idea irritare Trump, visto che per Israele il sostegno americano è imprescindibile. Molto meglio mantenere l’alleanza, cercare di strappare un’amnistia internazionale in sede negoziale, e giocarsi la poltrona alle elezioni puntando tutto su una “vittoria” sostanziale anche se non completa.
Date le condizioni strategiche, le trattative lanciate da Trump non potevano non riuscire: semplicemente, un accordo conveniva letteralmente a tutti.
L’accordo rimane quello che è: un trattato firmato dagli Stati Uniti e dalle Potenze regionali del Medio Oriente. Non è la pace. Al massimo, si tratta dell’ennesimo armistizio.
Di fatto, è uno scambio di prigionieri nell’ambito di una tregua. Consente a Israele di proclamare la vittoria, perché tutti gli ostaggi – vivi e morti – tornano a casa, e l’organizzazione militare di Hamas è stata distrutta assieme ai suoi alleati; di fatto, se Israele smette di combattere, non avendo una controparte combattente attiva, i combattimenti cessano. Alla componente “politica” di Hamas può anche stare bene, perché strappa una sorta di riconoscimento di fatto al mondo e ha ottenuto l’innegabile risultato – prevedibile fin dall’8 ottobre 2023 – di far crollare le simpatie per Israele nel mondo, il che era chiaramente l’intento dell’organizzazione fin dall’inizio, oltre a mandare in stallo gli Accordi di Abramo per la durata delle ostilità.
Rimangono però una serie di problemi tecnici che rendono l’intera costruzione diplomatica quantomeno velleitaria. La prima domanda che mi sono posto quando la tregua è stata annunciata è stata: ma se Israele si ritira dalla Striscia, chi assume il controllo del territorio lasciato libero?
Si fa un gran parlare di una ipotetica “Forza di Stabilizzazione”, ma a parte l’annuncio e un generico intento a che ne facciano parte Turchia, Egitto e Qatar (il Qatar ha un esercito minuscolo, e i militari turchi ed egiziani si detestano a vicenda) sotto un ancor più generico coordinamento da parte di trecento americani che però rimarrebbero fuori dalla Striscia, questa Forza ancora non esiste. Dovrà essere pianificata, assemblata, immessa in Teatro dopo adeguata ricognizione, dovrà raggiungere una “Initial Operational Capability (IOC)” che normalmente richiede almeno un mese, e poi forse comincerà a funzionare. Con quali Regole di Ingaggio (ROE)? Chi eserciterà il Comando e Controllo militare? A quale Autorità politica risponderà? Chi farà da interfaccia con la popolazione?
Ma soprattutto: chi controllerà la Striscia mentre la Forza si prepara?
Alla fine, sembra che il controllo tornerà proprio ad Hamas, almeno temporaneamente in veste di “polizia”… Un po’ come affidare alla camorra l’ordine pubblico di Napoli. Solo che come detto, Hamas è fortemente deteriorata: e ci sono i gruppi tribali che ormai stanno apertamente e assertivamente assumendo il controllo di zone urbane, esattamente come accaduto a Tripoli. Quando arriverà la Forza, troverà una situazione di fatto con gruppi armati radicati sul territorio e poco disposti a rinunciare al potere e alle rendite derivate dalla gestione mafiosa degli aiuti umanitari.
Ai Peacekeeper, difficilmente in buoni rapporti fra loro, rimarrà la scelta fra l’irrilevanza in stile UNIFIL e la repressione brutale in stile Fallujah.
I problemi peggiori però potrebbero essere altri.
Abbiamo detto in passato che i militanti di Hamas sono sostanzialmente integralisti salafiti affiliati alla Fratellanza Musulmana; i gruppi tribali sono per loro stessa natura fondamentalisti, mentre i lealisti dell’ANP sono appartenenti al partito al-Fatah, cioè laici più o meno nasseriani (semplificando moltissimo, sono la versione islamica del vetro-marxismo cubano). Questi tre gruppi sono politicamente del tutto incompatibili fra loro (spero di essere smentito, ma finora è sempre stato così).
A complicare il quadro, è il fenomeno della radicalizzazione islamica: gli insoddisfatti di ciascun gruppo (entro i quali esistono scarsi motivi di soddisfazione) tendono a salire di livello. I laici diventano fondamentalisti, i fondamentalisti diventano integralisti… Gli integralisti di Hamas delusi della loro dirigenza politica potrebbero fare il salto successivo, che è quello del Jihadismo. Non credo sia necessario ricordare che il Jihadismo è quello che prevede il martirio, visto non come eventualità ma come aspirazione: quello del terrorismo suicida. Ora, nella Striscia esiste già ed è attiva la Jihad Islamica: un’organizzazione palestinese finora minoritaria e collaterale ad Hamas fintanto che questa controllava la Striscia. Il rischio è che i militanti delusi passino alla Jihad, indossando casacche esplosive. E il loro obiettivo non potrebbero essere che i rappresentanti dell’amministrazione provvisoria della Striscia, che non potranno non vedere come “coloniale” indipendentemente dalla nazionalità dei suoi rappresentanti… A partire dai militari della Forza.
Insomma: a livello strategico le Potenze mondiali e regionali rilevanti hanno tutto l’interesse ad un accordo, e quindi lo hanno firmato. Ma esistono una serie di fattori tecnici sul terreno e fra gli attori locali che rendono l’accordo stesso estremamente precario sul campo.
Le Autorità politiche con la responsabilità di inviare personale nella Striscia faranno bene a tenerne conto.

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