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Cultura

RITORNARE A HEIDEGGER

RITORNARE A HEIDEGGER

di Angelo Giubileo

Il poeta francese Paul Valery chiamava "implesso" ogni situazione in cui, individuate due configurazioni visive, non siamo capaci di vedere il legame che le tiene o "man-tiene" entrambe.

Di "mantenimento dell'essere" dice in modo appropriato e in generale Martin Heidegger nel suo scritto finale, "Il detto di Anassimandro", che infatti costituisce il capitolo conclusivo dell'opera "Holzwege", in italiano - con l'intera traduzione di Pietro Chiodi confermata da Heidegger stesso - "Sentieri interrotti".

E allora l'implesso dell'esserci, non solo "attuale" nel senso di presente ma "essenziale" nel senso di una perenne manifestazione del sé, si disvela attraverso la contesa tra la manifestazione del pensiero del maestro, lo stesso Heidegger, e il pensiero della sua allieva prediletta Hannah Arendt.

E quindi la contesa serve a noi, soprattutto nell'attualità del presente, per disvelare quel legame nascosto dal quale prendono forma le diverse conclusioni del "pensiero iniziale" - così lo definisce Heidegger - comune ad entrambi.

Così che: a differenza di Heidegger, che sviluppa il suo discorso in ordine all'"essenza" dell'uomo, Arendt sviluppa il suo discorso in ordine alla "condizione" dell'uomo e pertanto giunge alla conclusione che, nello sviluppo dall’antichità alla modernità l'"homo faber" abbia vinto, e in modo definitivo. Questa aggiunta, come vedremo, è importante ma non decisiva.

E allora, in "Vita activa" (traduzione di Sergio Finzi, titolo originale "The human condition"), Arendt così conclude: "La capacità di agire, almeno nel senso della liberazione di processi (è) diventata la prerogativa esclusiva degli scienziati, che hanno allargato il dominio della presenza umana al punto di estinguere l’antica barriera protettiva tra la natura e il mondo umano (…) Ma l’azione degli scienziati, poiché agisce nella natura della prospettiva dell’universo e non nel tessuto delle relazioni umane, manca del carattere di rivelazione dell’azione come della capacità di produrre vicende e storie, che insieme formano la fonte da cui scaturisce il significato che illumina l’esistenza umana. Da questo importantissimo punto di vista esistenziale, l’azione è diventata un’esperienza per pochi privilegiati”.

E allora, cosa fare? La ri-soluzione di Arendt riflette, purtuttavia, un’esperienza del passato o dell’antichità: “Chiunque abbia qualche esperienza in questa materia saprà come avesse ragione Catone nel dire Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solum esse quam cum solus esset (“Mai qualcuno è più attivo di quando non fa nulla; mai è meno solo di quando è solo con se stesso”)”.

Così che “il pensiero iniziale” di Heidegger recuperi, potremmo dire, quello svantaggio, che, come detto, appariva definitivo ma non si rivela affatto decisivo.

Heidegger è d’accordo con Arendt quando scrive che “L’uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura -  ridotto a “forze” - e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria (così che) il tutto dell’ente è divenuto l’unico oggetto di un’unica volontà di conquista”. Ma, nel contempo, Heidegger scrive anche che “Quest’uomo in rivolta non è più in grado di dire semplicemente che cosa è (ist), di dire che cos’è che una cosa è (così che) la semplicità dell’essere è sepolta in un oblio totale”.

E tuttavia, siamo proprio certi che questa situazione sia irreversibile e soprattutto non si sia invece già manifestata anche in passato?

Approfondendo l’avventura e la ricerca, e leggendo e rileggendo l’opera dello storico della scienza Giorgio de Santillana, anche in compagnia della sua allieva Hertha von Dechend, scopriamo che “ci è infatti possibile ricostruire la storia del significato di fabbro nello sciamanismo asiatico e, in particolare, del fabbro celeste, legittimo erede del divino architecton greco del cosmo. Diversi rappresentanti di questa categoria, che noi chiamiamo del Deus faber, hanno ancora entrambe le funzioni, essendo nel contempo architetti e fabbri: tali sono ad esempio l’Efesto greco, che costruisce le dimore stellate degli dei e forgia capolavori d’arte, e il Ktr-w-hss di Ras samra, che costruisce il palazzo di Ba‘al e forgia pure lui capolavori…” (da Il mulino di Amleto, Adelphi 2000).

Così che, anche oggi, Aristotele pare invitarci, viceversa pur sempre, a “riflettere che, mentre probabilmente ciascun’arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie dell’antico tesoro” (ibidem).

E allora, in scia al pensiero iniziale dell’antichità, non resta che chiederci, con Heidegger: “C’è qualche salvezza?”. E, in scia a Heidegger, rispondere: “Essa c’è in primo luogo e soltanto se il pericolo è (ist). Il pericolo è se l’essere stesso va all’estremo e capovolge l’oblio che proviene dall’essere stesso. Ma se l’essere, nella sua stessa essenza, man-tenesse l’essenza dell’uomo? E se l’essenza dell’uomo riposasse nel pensare la verità dell’essere? Allora il pensiero deve poetare l’enigma dell’essere. Esso porta l’aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi”.

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