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Cultura

RICOSTRUZIONE SPIRITUALE

RICOSTRUZIONE SPIRITUALE

 
Un paio di giorni fa, seguendo le notizie sulla visita del Santo Padre a L’Aquila, in occasione dell’anniversario del tragico terremoto del 2009, sono stato colpito dalle parole con le quali Padre Bergoglio osservava che non può esservi vera ricostruzione se non vi è ricostruzione spirituale.
 
MI è sovvenuto allora di chiedermi che cosa io faccia o che cosa io possa fare per aderire a questo progetto di ricostruzione auspicato dal Papa.
 
Sono certo che Papa Francesco, nel suo enunciato, non abbia voluto riferirsi esclusivamente alla pratica cristiana in senso rituale. Il Santo Padre è sì capo supremo della chiesa cattolica, ma è, senza dubbio, uomo di spiritualità miracolosa e troppo intelligente e moderno, pur con il suo rigore conservatore per le cose che contano veramente, per ridurre la spiritualità a una prassi.
 
Ho cercato quindi di trovare per me stesso, stimolato da quelle parole, una spiegazione plausibile del termine spiritualità, perché credo che solo comprendendo che cosa essa sia io possa allora realizzare se il senso dello spirito sia veramente smarrito o demolito, e avvertire quindi il bisogno, magari con urgenza, di cercarlo e di ricostruirlo. Ho constatato che, di fatto, io non rifletto spesso sulla spiritualità, ben sapendo, peraltro, che da tempo non mi dedico più ai riti della chiesa cattolica. Vivo un po' così, cogliendo gli umori alterni di tempi non facili per l’essere umano, specie in una società che parrebbe sempre più avvicinarsi al limite del suo progresso.
 
In questa riflessione indotta dalle parole del Papa, mi sono ricordato dell’anziano portiere di un condominio nel quale ho vissuto per un breve periodo mentre frequentavo, più di dieci anni fa, un corso nella Capitale, a premessa di un nuovo incarico.
 
Lo ricordo come una persona anziana, ma a pensarci bene non aveva molti più anni di quanti ne abbia io oggi. Era un uomo mite, gran lavoratore, loquace quanto bastava per riservare a ogni condomino una battuta. Nella sua semplicità esperta, dopo tanti anni di guardiania dell’elegante condominio nel centro cittadino, il simpatico custode aveva imparato a confortare le persone. Lo faceva con un sorriso, con un apprezzamento, con un saluto. Insomma, il simpatico amico aveva per tutti un gesto di considerazione.
 
Spesso, rientrando, mi fermavo a fare due chiacchiere con lui. Insieme commentavamo i fatti del giorno, le vicissitudine della politica o del campionato e, frequentemente, le intemperanze di una città bella, sorniona e ruffiana come solo Roma sa essere.
 
Un giorno, cademmo sul discorso della vita e, con questa, su quello della morte che, secondo la logica binaria con la quale il nostro cervello tende a categorizzare gli eventi, a me risulta spontaneamente quale l’opposto di ciò che io sono. Bianco e nero, caldo e freddo, vita e morte, essere e non essere: guidato dal criterio effimero degli opposti, uso questo strumento iniquo per conformare il mio giudizio sui fatti, anche su quelli più importanti. Dal giudizio poi derivano le decisioni e le azioni, e con esse il carico di effetti che ne consegue.
 
La logica binaria degli opposti pone dunque la morte, anche inconsapevolmente, come l’opposto di ciò che si è. In assenza di approfondimento, essa risulta più probabilmente come uno stato di non essere, cioè come un non stato. È un pensiero che tendiamo ad allontanare, mentre il dogma della vita successiva, professato dalle religioni, spesso non ci convince. Così facendo viviamo sempre più inconsciamente la paura della morte di cui siamo, in realtà, testimoni spaventati attraverso i fatti di cronaca.
 
Ora, Roberto, così si chiamava il portiere, mi pareva un personaggio sempre in attesa di qualcosa. Attento agli altri, con i suoi gesti semplici, sembrava in verità sprofondato in un perenne stato di distacco, uno stato che a me rivelava calma e, in alcune manifestazioni, anche saggezza.
 
Impossibile quindi non esplorare l’intento personale che lo animava rispetto al vivere, certo che da lui io potessi imparare qualcosa. Mi spiegò che ai suoi tempi di bambino, l’educazione era anche quella di visitare i morti. Sì, i morti da poco, prima del sacramento funebre e della sepoltura, normalmente nei soggiorni delle abitazione con gli ingressi listati a lutto. Il rito di quella cerimonia voleva che si sostasse innanzi alla bara coperta con un velo di tulle e che si pronunciasse qualche preghiera. In qualche caso, se il morto era importante, accadeva di procedere alla recita del rosario. Io stesso, che non sono molto più giovane di Roberto, queste cose di bambino me le ricordo molto bene.
 
La tesi del caro portiere, nel narrarmi queste circostanze della sua infanzia, era che l’educazione alla spiritualità, e con essa al senso della vita e del suo apparente opposto, inziava proprio dal prendere atto della morte. Non in modo drammatico, anche se di tanto in tanto poteva accadere (in questi casi si evitava di portare i bambini), ma come naturale conclusione del percorso terreno. Certo, la prospettiva successiva rimaneva incerta, e tutto poteva giovare alla comprensione di un bambino tranne che il dogma religioso della risurrezione. Facevamo finta di capire, quando in realtà ci premeva solo che la procedura finisse per tornare a giocare. Eppure, con quella testimonianza indiretta della morte, esposta come fatto naturale, si veniva educati alla spiritualità e alla vita.
 
Roberto mi disse che questa sua consapevolezza, alla quale i riti infantili lo resero avvezzo, lo aveva posto in una posizione neutra rispetto al vivere. Quando egli usò questo termine, “neutro”, non potei non chiedergli che cosa egli intendesse con quella espressione di non giudizio. Egli evocò allora l’assenza di vere passioni, come se non vi fosse mai nulla che potesse accalorarlo oltre una certa temperatura mentale e corporea, mi espose il concetto della temperanza, e quindi quello della considerazione dell’altro, e disquisì con una certa eloquenza della definizione di impermanenza degli oggetti, del tempo, persino dei sentimenti. In lui trovai un filosofo in grado di spiegarmi, ora lo comprendo, la spiritualità.
 
Viviamo in una società sempre più appesa all’effimero senso del possesso, senso che travalica se stesso al punto da diventare alibi per distruggere l’altro, come se la morte, prima o poi, non ci riguardasse, al punto da poterla persino arrecare ad altri per logiche di egemonia e di presunta giustizia. Non comprendiamo che nulla è per sempre, almeno secondo i canoni che le società, oggi fortemente guidate da economia e finanza, vorrebbero farci credere, protese come sono verso uno sviluppo che sta diventando, paradossalmente, negazione del progresso.
 
Allora sì, ha ragione Papa Francesco, non servirà ricostruire in assenza di spiritualità che, come diceva Roberto, è il senso della vita e dell’impermanenza terrena di quest’ultima. Allora vorrei essere come il caro portiere del condominio romano: osservatore generoso del vivere, senza passioni turbolente e solo animato dai miei doveri. Tra tutti, in primo luogo, il sacro obbligo della considerazione dell’altro.
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